Il controllo a distanza dei lavoratori è uno degli effetti di questo 2020 funestato dalla pandemia. Un modo, per le aziende, di affrontare con più efficienza lo smart working e la sua produttività. Per chi lavora tutto questo può invece risolversi in una crescente violazione della privacy. In ogni caso la geolocalizzazione dei dipendenti è ormai una realtà, dalla quale sarà difficile tornare indietro.
Lo studio Toffoletto De Luca Tamajo ha analizzato le normative di 34 Stati sul tema. In circa il 15% dei Paesi esaminati (Argentina, Brasile, Canada, Cile, Regno Unito) la geolocalizzazione del lavoratore è possibile con la semplice informativa ai dipendenti.
Nella fascia di mezzo, dove la geolocalizzazione è di difficoltà “media”, rientrano Washington, New York, New Jersey, Texas, Florida, California, oltre a Ungheria, Giappone, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Portogallo. Qui, in aggiunta all’informativa, nella maggior parte dei casi le norme prescrivono una precisa policy aziendale sull’utilizzo e la conservazione dei dati, e il consenso esplicito del lavoratore.
Nella metà dei Paesi analizzati dal campione (17) è considerato più “difficile” applicare il monitoraggio del lavoratore attraverso la tecnologia Gps, e tra questi c’è anche l’Italia, insieme a Belgio, Cina, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Israele, Lussemburgo, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Repubblica Ceca, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera. In questi Stati, oltre all’informativa e alle policy aziendali, serve sempre anche il consenso del lavoratore, “e/o il raggiungimento di un accordo sindacale o di un’autorizzazione pubblica”.
