Dalla caduta del regime di Ben Ali nel 2011 e fino a novembre 2017, l'Ocse stima che ben 95 mila tunisini hanno scelto di guadagnarsi da vivere altrove. L'84% di loro si è stabilito in Europa e si tratta, in particolare, di laureati tentati da prospettive più allettanti rispetto a quelle offerte nel loro paese.
Dopo gli ingegneri, specialmente quelli informatici, e i ricercatori, i medici costituiscono il più grande contingente di questi nuovi migranti. Tra quest’ultimi la quota di giovani dottori esiliati è aumentata dal 9% nel 2012 al 45% nel 2017.
Secondo l'Associazione tunisina di Grandes Ecoles, una partenza su tre è dettata dalla situazione del paese. A risultare decisive sono, in particolare, le differenze retributive. Un ingegnere all'inizio della carriera guadagna meno di 300 euro in Tunisia a fronte dei 3 mila accordati in Francia.
Coloro che hanno fatto il percorso inverso nel 2011, invece, hanno creduto nella rivoluzione, salvo poi scottarsi con l’amara realtà, fatta di burocrazia e corruzione. Ma conviene al paese che i cervelli in fuga ritornino a casa?
Esiste, in effetti, una relazione tra migrazione e sviluppo attraverso il trasferimento di denaro – operato dagli immigrati verso le loro famiglie originarie – e, soprattutto, l'acquisizione di competenze. La fuga di cervelli crea una temporanea mancanza di forza lavoro ad alta qualificazione. Ma è pur vero che coloro che fanno il percorso a ritroso, ad esempio dopo dieci anni di permanenza all’estero, fanno guadagnare al paese in virtù dell’esperienza acquisita cento anni”, sostiene il funzionario dell’Ilo, Mohamed Belarbi. Un aspetto sul quale riflettere.