Settimana corta, nessun calo di produttività, salari invariati. A leggerlo così l’esperimento islandese, reso noto in questo inizio estate, sembra il sogno di ogni lavoratore. Nell’isola, tra il 2015 e il 2019, sono stati condotti due successivi esperimenti di riduzione da 40 a 35-36 ore della settimana di lavoro senza tagliare i salari, coinvolgendo complessivamente circa 2.500 lavoratori (oltre l’1% della popolazione attiva) impiegati in diversi ambiti del settore pubblico.
Il punto di partenza era un gap per il Paese nordico che, pur condividendo con i suoi vicini alti livelli di reddito (sesto come reddito pro capite tra i Paesi Ocse, con circa 47 mila dollari Usa nel 2017), bassa disoccupazione (3,4%) e un generoso welfare, mostrava un basso livello di produttività (55,4 dollari per ora lavorata, 14° tra i Paesi Ocse) e una settimana lavorativa nei fatti troppo pesante: 44,4 ore effettive (dati 2018) per gli impieghi a tempo pieno, terzo posto tra i membri dell’Ue.
Produttività a parte, l’effetto collaterale erano un disagio e un’insoddisfazione diffusi, con 1 lavoratore su 4 che si diceva incapace di far fronte alle incombenze domestiche una volta terminato il lavoro, lamentando una scarsa qualità della vita. I risultati degli esperimenti hanno rivelato un “sostanziale miglioramento” della qualità della vita dei lavoratori, dallo stress percepito alla salute e al bilanciamento tra lavoro e vita privata. E fin qui nulla di sorprendente. Il dato più interessante è però il fatto che produttività e fornitura di servizi siano addirittura migliorati un po’ in tutti i settori monitorati.
In seguito al successo dei due esperimenti, sindacati e organizzazioni datoriali islandesi hanno siglato accordi di riduzione permanente dell’orario di lavoro. Il risultato? Oggi l’86% dell’intera popolazione attiva ha settimane lavorative più corte o ha guadagnato il diritto a negoziarle.