Il processo di transizione energetica è stato sicuramente facilitato nel corso degli ultimi anni pre-pandemici dalla riduzione del costo delle energie rinnovabili (in particolare solare ed eolico), ormai più convenienti per la generazione elettrica delle energie fossili. Ma la pandemia, l’inflazione e la guerra in Ucraina hanno reso più complicato il processo. E chiarito alcuni aspetti: se si vuole ad esempio puntare sul fotovoltaico si deve mettere in conto una forte dipendenza dalla Cina.
Lo sviluppo del fotovoltaico cinese durante l’ultima decade è stato imponente. Oggi l’industria globale è fortemente concentrata nella sola Cina, predominante in tutte le fasi della catena del valore. Attualmente, secondo Iea, i costi di produzione in Cina sono minori del 10% rispetto a quelli ottenibili in India, del 20% rispetto agli Usa, del 35% rispetto all’Europa. A spiegare la divergenza concorre principalmente il costo dell’elettricità, che in Cina viene prodotta per il 65% attraverso il carbone.
Per quanto riguarda il futuro, il rischio è che se Pechino dovesse spinger troppo velocemente verso la transizione energetica potrebbero cominciare a scarseggiare, in particolare, alcuni minerali - tra cui importante è soprattutto l’argento, di cui si prevede un gap fra domanda e offerta pari al 30% nel 2030 - destinati ai mercati esteri. Il paradosso è che l’Occidente (e il resto del mondo) deve sperare che la Cina non diventi troppo ecologista.
La maggiore dipendenza da Pechino non è comunque l’unico problema all’orizzonte per i paesi europei. Si è ora aggiunto lo statunitense ‘Inflation Reduction Act’ (Ira) dell’agosto 2022, con i generosi sussidi alle imprese. Come diceva la pubblicità del noto gelato? “Two is better than one”? Non sempre, potremmo concludere.