Il governo saudita aveva lanciato, nel 2016, un’offerta pubblica iniziale su Aramco (ovvero l’operazione attraverso la quale una società ottiene la diffusione dei titoli tra il pubblico), il gigante petrolifero statale di Riad, salvo poi tornare sui propri passi. Il progetto, che prevedeva la cessione del 5% delle azioni (la più grande vendita del genere nella storia), è saltato perché la valutazione della compagnia auspicata dall’esecutivo saudita – 2 trilioni di dollari - è stata giudicata troppo alta dai mercati. Il ministro dell'energia Khalid al-Falih nega la notizia diffusa il 23 agosto da quattro fonti autorevoli, secondo le quali sarebbe stato messo uno stop all’operazione, che sarebbe servita per cominciare a svezzare il paese dal petrolio.
Ma riavvolgiamo il nastro e partiamo dall’inizio. Il 2 marzo 1938 l'Arabia Saudita è una società in gran parte abitata da nomadi e con un’economia alimentata dal turismo religioso. I pellegrinaggi alla Mecca sono passati in secondo piano quando, il giorno dopo, è stato scoperto il petrolio. Poi, al termine della seconda guerra mondiale, è diventato più chiaro che sotto la sabbia del deserto si nascondeva un immenso tesoro. E, così, il petrolio saudita a buon mercato è diventato uno strumento fondamentale per il lungo boom postbellico dell'economia mondiale e, allo stesso tempo, le entrate derivanti dalle esportazioni di greggio hanno consentito al paese di costruire strade, ponti e abitazioni.
Quella che doveva rappresentare una svolta per l’Arabia è diventata presto una dipendenza: l’oro nero ha cominciato a costituire buona parte delle entrate del bilancio statale, del Pil e delle esportazione. Per far girare l'economia era, tuttavia, necessario che il prezzo globale del greggio restasse alto. Quando ha sfondato il tetto di 100 dollari al barile, il governo saudita ha potuto mantenere le tasse a un livello basso e aumentare la spesa per il welfare, investendo di più anche nelle infrastrutture. Non per caso, il via libera alla torre di Jeddah, che sarà ultimata nel 2019 diventando l’edificio più alto del mondo (1 km), è stato dato quando il prezzo ha toccato i 120 dollari.
Successivamente sono, però, successe due cose. Il prezzo del petrolio è sceso sotto i 100 dollari nel 2014 e, da allora, non si è più ripreso. All'inizio del 2016 è persino crollato a 30 dollari, facendo precipitare l’Arabia in recessione. Il mondo ha, inoltre, cominciato a tagliare le emissioni di gas serra. Per i sauditi, le implicazioni dell'accordo di Parigi sono evidenti: la spinta a decarbonizzare l'economia globale implica che una parte considerevole delle riserve petrolifere di Riad restino li dove sono, sotto la sabbia. D’altronde, l'età della pietra si è chiusa non per mancanza di pietre e l'era del petrolio si concluderà non a causa della scarsità di petrolio.
Ad ogni modo, l’Arabia Saudita ha reagito alla caduta dei prezzi, cercando di persuadere le nazioni produttrici di petrolio a limitare l’offerta allo scopo di far risalire il prezzo al barile. E, in parte, è riuscita nei propri intenti. A quello attuale, 70 dollari, i sauditi hanno riportato i conti in relativo equilibrio.
Riad, tuttavia, ha anche un progetto a più lungo termine: diversificare l'economia. Si chiama “Saudi Vision 2030” il piano annunciato dal principe ereditario Mohammed bin Salman nell'aprile 2016, poco dopo che il prezzo del petrolio ha raggiunto il suo punto minimo. L'idea è di fare dell'Arabia Saudita un gigante per gli investimenti globali, di trasformare il paese in un centro che colleghi tre continenti: Europa, Asia e Africa, diventando il cuore del mondo arabo e islamico.
Ecco allora che le intenzioni del principe ereditario si ricollegano all’idea di vendere parte di Saudi Aramco per modernizzare il paese, che in realtà resta profondamente conservatore, nonostante alcuni tentativi come la recente revoca del divieto di guida per le donne. Ma, proprio come con una superpetroliera, per cambiare rotta ci vorrà tempo, molto tempo.