A tutt’oggi, le imprese possono stabilire la loro sede legale nel paese che applica la percentuale di tassazione più bassa possibile e dichiarare in tale paese le imposte da pagare, anche se i profitti sono stati ottenuti da vendite o attività effettuate altrove. I dati dicono che una cinquantina di grandi aziende statunitensi, tra cui Nike, Hp o Fedex, non hanno pagato alcuna imposta nell’ultimo anno, ricevendo invece sostanziosi crediti. Tutto questo condurrebbe ad una perdita di circa 240 miliardi di dollari a livello globale, 70 dei quali riguarderebbero l’Eurozona e 3 l’Italia.
Altri dati suggeriscono che l’attrattiva esercitata verso le multinazionali globali dai soli paesi europei che offrono una bassa tassazione (i già citati Cipro, Belgio, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Olanda) sarebbero tali da comportare una riduzione del gettito fiscale che oscilla fra il 15% e il 25% circa delle imposte pagate dalle imprese multinazionali in paesi come Italia, Francia o Germania.
Ma questo schema non durerà ancora a lungo. Nei giorni scorsi infatti l’Ocse ha annunciato che è stato trovato un accordo, sostenuto da 136 paesi, su un’aliquota minima globale al 15%. Questo vuol dire che se un paradiso fiscale provasse ad attrarre una grande impresa proponendo una tassazione del 10%, il paese di residenza della multinazionale potrà comunque reclamare il restante 5%, vanificando così l’attrattiva della minore aliquota di tassazione.
Il diavolo, tuttavia, si nasconde nei dettagli. Ecco perché. L’aliquota di tassazione media applicata nel mondo alle imprese è ben maggiore del 15%. L’adozione di una tale percentuale minima a livello globale rischia quindi, come avverte Joseph Stiglitz, che in realtà diventi quella massima. Ad esempio, nel Regno Unito, patria del libero mercato, le imprese sono tassate oggi con un’aliquota del 19%, quindi superiore al 15%. Va notato anche che, sempre nel Regno Unito, si parla di un possibile aumento al 25% nel 2023 per permettere di coprire le spese dovute alla crisi pandemica.
L’altro obiettivo dell’intesa riguarda il pagamento delle imposte da parte delle imprese globali nei paesi in cui si effettuano le vendite o dove ha luogo la loro attività. Ciò significa che non solo le multinazionali globali dovranno essere tassate, ma queste imposte dovranno andare proprio ai paesi dove esse operano. Almeno così sembra. È previsto che solo nel caso in cui le imprese globali abbiano un margine operativo di profitto (ricavi dalle vendite meno costi di produzione) superiore al 10% delle vendite, il 20% dei profitti che superano quel valore siano tassati con l’aliquota stabilita normalmente dal paese sui profitti societari. Solo in tal caso i relativi proventi andrebbero al paese nel quale sono stati ottenuti. Per esempio ad Amazon, che ha un margine operativo inferiore al 10%, tale norma non si applicherebbe.
In conclusione, come sostiene Pompeo Della Posta su Micromega, l’aliquota minima del 15% di global tax è una misura gattopardesca, un cambiamento formale per tacitare l’opinione pubblica mondiale, in modo che (quasi) nulla cambi veramente. A meno che non sia solo il primo passo verso una nuova tassazione globale. Su questo vedremo: se son rose fioriranno.