L’Italia è un paese parsimonioso. Secondo l’ultimo report dell’Abi, la raccolta diretta delle banche italiane (composta da depositi e obbligazioni) ha superato ad aprile i 2 mila miliardi di euro. Mentre, come ha ricordato il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il risparmio gestito (cioè immesso in fondi di investimento e strumenti collegati) ha raggiunto i 1.300 mld.
Complessivamente, pertanto, il risparmio degli italiani ha una capacità superiore ai 3,3 trilioni. Vuol dire il 22% in più del debito pubblico e 1,85 volte il Pil. Risorse che sovrastano i 270 mld del tanto atteso Pnrr.
Questo denaro oggi potrebbe rivelarsi prezioso per sostenere un deciso cambio di passo nelle politiche di sviluppo dell’Italia, che necessita investimenti tanto immateriali – istruzione, ricerca, qualità del tessuto sociale e delle istituzioni pubbliche – quanto tangibili, per recuperare il gap infrastrutturale verso gli altri paesi europei (strade, ferrovie, aeroporti, ecc.), la funzionalità degli apparati energetici e logistici, una digitalizzazione estesa ed effettiva.
Usato in una logica virtuosa di investimento – remunerato – su attività e servizi di interesse generale, questo risparmio consentirebbe al nostro paese di ritrovare quello slancio perduto da troppo tempo. A condizione che vi sia un cambio di paradigma.
Dal lato della finanza pubblica, lo Stato deve superare le ben note difficoltà a tradurre in risultati concreti la propria spesa. Il Pnrr indica timidamente la strada: passare da una logica di processo a una di performance, da misurare in termini non solo economici, ma anche sociali e ambientali.
Analoga trasformazione è richiesta alla finanza privata. Il sistema finanziario è concentrato sulle proprie profonde e quasi permanenti ristrutturazioni, è condizionato da un processo di digitalizzazione ancora incompiuto, è scosso dalle fibrillazioni costanti del legislatore senza peraltro toccare quelle componenti di endemica auto-referenzialità della finanza, dagli strumenti derivati agli scambi ad alta frequenza, che disincentivano ogni forma di ritorno all’economia reale.
Il risultato è che il credito è un problema serio per le imprese, soprattutto piccole, e gli investimenti finanziari sono orientati a rincorrere risultati (quasi) solo di breve termine. Così, lo stesso sistema finanziario sta progressivamente segando il ramo su cui è seduto.
Insomma, dopo quasi dieci anni spesi a parlare di impact investing, cioè di una finanza in grado di produrre un effetto positivo su persone ed ecosistema, occorre passare dalla propaganda ai fatti.
Visco ha sottolineato che la ricchezza finanziaria degli italiani è uno dei punti di forza del paese, ma potrebbe e dovrebbe essere sfruttata meglio. Ecco allora la grande opportunità: non c’è bisogno di andare a cercare in giro risorse per finanziare la transizione energetica, l’innovazione tecnologica e quella sociale, la creazione di posti di lavoro ecocompatibili e sostenibili.
Le risorse ci sono. Occorre che chi le gestisce impari ad investirle secondo criteri nuovi (l’impatto sociale e ambientale), da innestare sulla vecchia tradizione della spesa di processo (finanza pubblica) e della banca di territorio, riconvertita al digitale e ai criteri ESG.
(Sono qui riportati alcuni passaggi di un articolo firmato da Alessandro Messina e pubblicato su Sbilanciamoci.info)