La Federal Reserve vara un nuovo consistente aumento del tasso di interesse: 0,75 punti base per provare a fermare la corsa dell’inflazione, partita nel periodo più duro della pandemia di Covid e impennata con l’invasione dell'Ucraina da parte della Russia. L’intervallo per il tasso sui fondi federali è dal 2,25% a 2,50%.
Si tratta del quarto rialzo nel corso del 2022, il secondo consecutivo da 75 punti base. La Fed valuta “appropriato” proseguire nel percorso di crescita dei tassi e sottolinea al contempo di essere “fermamente impegnata a riportare l’inflazione al suo obiettivo del 2%”.
Al momento, l’inflazione statunitense rimane “troppo alta”, l’ultima rilevazione è stata “peggiore del previsto”, osserva il presidente della Fed Jerome Powell. Ma il governatore della banca centrale statunitense puntualizza a più riprese: “Non penso che gli Stati Uniti siano in recessione”. Perché – osserva – “se guardiamo una serie di indicatori, come quello del mercato del lavoro, non sono quelli di un paese in recessione”.
In effetti, alcuni economisti sostengono che negli Usa l’incremento dell’inflazione sia correlato a un eccesso di domanda, mentre in Europa da una riduzione dell’offerta. E se invece l’attuale livello dei prezzi al consumo negli Stati Uniti fosse causato da una combinazione di entrambi i fattori? In tal caso, la sola azione della Fed non sarebbe sufficiente a risolvere i problemi. Se a mancare è l’offerta allora sono i governi a dover intervenire, non le banche centrali, come evidenzia Filippo Inman sul quotidiano britannico The Guardian.
Allo stesso tempo, l’aumento sensibile dei tassi nella prima economia al mondo rischia di spingere verso la recessione buona parte del resto del mondo, visto che i prestiti in dollari stanno diventando un onere insostenibile per gli altri paesi e che la maggior parte della banche centrali globali sono allineate alla Fed, confermando il ruolo dominante del biglietto verde. Il Dio dollaro.