Ma cosa avevano economisti e ministri delle finanze, riuniti mercoledì 18 aprile a Washington, al Fondo monetario internazionale, per la presentazione del Global Financial Stability Report? Da una parte snocciolavano dati che confermano il buono stato di salute – in alcune aree ottimo – dell’economia planetaria, con una crescita media nel 2018 del 3,9%, dall’altra gli stessi studiosi e politici avevano facce tese, toni preoccupati.
Ci sono reali spunti di preoccupazione all’orizzonte, anche se ora il cielo è terso. Le minacce più evidenti arrivano dagli Stati Uniti. Trump ha aperto tre fronti: dazi su acciaio e alluminio, l’annullamento degli accordi commerciali del North American Free Trade Agreement (Nafta) e un violento inasprimento tariffario sui prodotti cinesi, per un controvalore da 50 a 150 miliardi di dollari. Ma a ben vedere il presidente statunitense ha aperto i tre fronti solo a parole: le relative decisioni sono state, nei fatti, o rimandate o molto ridimensionate.
Il vero spettro sul mondo è di natura finanziaria. Vanno aggravandosi gli squilibri tra gli esportatori “forti”, in primis Germania e Cina, e gli importatori netti, gli Stati Uniti. Per la Germania, il surplus delle partite correnti sale dall’8% del Pil dell’anno passato all’8,2 del 2018, a fronte del disavanzo degli Usa, che quest’anno volerà al 3% del Pil contro il precedente 2,4.
Ma il rischio maggiore viene dalla politica dei tassi d’interesse delle banche centrali. Troppi anni a tassi zero, in Europa, o quasi zero, negli Usa, tolgono l’arma principale dei banchieri centrali in caso di arrivo di una fisiologica fase recessiva. Arma ancora più spuntata in un contesto in cui la massa del debito globale è andata aumentando. Un incremento paradossale, perché proprio in una così lunga stagione di benessere si sarebbe potuto metter mano al debito e ridurlo.