Continuando ad abbassare i tassi e a comprare i titoli col Quantitative easing (il programma di acquisto mensile di titoli che la Bce aveva interrotto e ora ripreso) la banca centrale cerca di alimentare la crescita, ma rischia di far danni da eccesso di liquidità. Eccesso che dovrebbe causare inflazione e quindi giustificare un arresto degli stimoli. Invece è proprio l’insufficienza dell’inflazione (che è attualmente circa la metà del 2% cui mira la Bce) che motiva nuove decisioni espansive. “Le quali, sebbene non riescano al momento ad aumentare il livello dei prezzi, manifestano comunque altri effetti collaterali indesiderabili”, spiega Franco Bruni su lavoce.info.
Due tipi di effetti collaterali. Il primo tipo è il costo che i tassi bassissimi o negativi (le banche che depositano liquidità presso la Bce pagano lo 0,5% invece di ricevere un interesse e sono negativi i rendimenti di molti titoli obbligazionari) rappresentano per le banche e per gli investitori istituzionali che hanno impegni di rendimento a lungo termine fissi. Con tassi molto bassi o negativi, gli intermediari non riescono ad avere margini adeguati e ad assicurare, per esempio ai detentori di fondi pensione, i rendimenti che avevano promesso contrattualmente.
Secondo tipo: tassi negativi o bassissimi e liquidità sovrabbondante sono pericolosi per la stabilità finanziaria, alimentano oltre modo la domanda di attività come immobili e titoli, rigonfiandone i prezzi come bolle, spingono il credito verso impieghi rischiosi peggiorando l’allocazione delle risorse e rendendo più fragile la struttura finanziaria.
“Ci sono poi altri due tipi di effetti collaterali dei quali poco si parla”, avverte Bruni. C’è la perdita di credibilità progressiva di politiche monetarie che continuano a fallire nel perseguire obiettivi di inflazione che non tengono conto dei cambiamenti strutturali avvenuti nella formazione dei prezzi nel mondo con la globalizzazione e le nuove tecnologie. “È probabile che tali mutamenti abbiano ridotto il tasso normale di inflazione, rendendo a questo punto più complesso l’obiettivo di farla salire”, ipotizza Bruni. Mentre togliendo moneta prima o poi l’inflazione eccessiva si ferma “per forza”, nell’altro senso non funziona: si mette moneta, ristagna, circola più piano, non alimenta domanda e prezzi.
Invece, Draghi insiste con l’obiettivo del 2%. E i salari stanno (lentamente) crescendo, mentre finora si è sostenuto che l’insufficienza dell’inflazione era dimostrata dal mancato incremento dei salari. “Ecco allora che, anche senza cambiare il mandato statutario della Bce, c’è modo di leggere l’economia così da accettare un’inflazione stabilmente più bassa del 2%”, suggerisce Bruni.
Ultimo tipo di effetto collaterale trascurato: con tassi bassissimi e Qe, non c’è stimolo all’aggiustamento di chi è troppo indebitato, come l’Italia. Queste politiche monetarie sono causa di una pericolosa “dominanza fiscale” (sono le esigenze dei deficit pubblici a determinare la velocità di creazione della moneta), che fa perdere autorevolezza e indipendenza alle autorità monetarie. Il rilassamento di disciplina e prudenza fiscali causato da tassi bassi, liquidità eccessiva, Qe, è evidente ma le decisioni fiscali rimangono esogene, ovvero motivate politicamente e non dal costo del finanziamento dei deficit. “Draghi nel trascurare questo effetto perde peso quando chiede ai governi di contenere i loro debiti”, conclude Bruni.