Carlos Saúl Menem, presidente dell’Argentina tra il 1989 e il 1999, è morto domenica 14 febbraio all’età di 90 anni. Non è stato un esempio dell’argentinità in toto, ma è stato espressione di una generazione che sin dagli anni Ottanta aspirava a un tenore di vita “da primo mondo” pur rimanendo nel terzo.
Nel decennio al potere del presidente appena scomparso l’Argentina si illuse di decollare, mentre stava gettando le basi del suo tracollo. Il “realismo periferico” e la “relazione carnale” con gli Stati Uniti.
Lo scorso agosto l’Argentina ha evitato in extremis un nuovo default. Sarebbe stato il nono per il paese sudamericano. In un comunicato il governo di Buenos Aires ha annunciato di aver raggiunto un accordo con i creditori internazionali per la ristrutturazione del debito.
L’Argentina è in recessione dal 2018 ed è alle prese con un’inflazione schizzata alle stelle con i prezzi al consumo balzati del 50% nel 2019, il massimo degli ultimi 29 anni. Una situazione di crisi su cui si è poi abbattuta anche la pandemia.
Serve un piano economico capace di far riprendere il paese. Ma gli attori in gioco (il governo di Buenos Aires, i suoi creditori, e l’Fmi) non sembrano avere una strategia efficace per generare una crescita economica (e uno sviluppo) sostenibile nel paese sudamericano.
E non sarà da solo il mercato a risolvere i problemi dell’Argentina. Servirebbe invece una strutturata strategia di politica economica basata più sulla sostituzione delle importazioni – in pratica la creazione di aziende manifatturiere locali che sostituiscano le importazioni dai paesi sviluppati e alimentino la loro crescita proteggendo il mercato interno – e meno su una crescita trainata dalle esportazioni, basata sui vantaggi comparati collegati a un’idea di manodopera a basso costo e materie prime non trasformate.