Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno aumentato i dazi dal 10 al 25% su 200 mld di importazioni dalla Cina, acuendo il conflitto tra le prime due economie globali. Non contento Donald Trump è arrivato a minacciare l'applicazione delle nuove tariffe a tutto l’import del “Made in China”.
È giunta, scontata, la reazione di Pechino, che ha deciso di aumentare i dazi su 60 mld di import dagli Stati Uniti a partire dal primo giugno. In realtà la principale mossa di Pechino appare un’altra.
La People's Bank of China (la Banca centrale) ha svalutato lo yuan dello 0,6% rispetto al dollaro statunitense - il nuovo tasso di cambio è pari a 6,8365 yuan per dollaro. È una pratica perseguita dalla Cina sin dal 2015, che continua in tal modo a ricorrere alla svalutazione competitiva. Uno strumento che anche l’Italia conosce bene, avendola utilizzato a lungo nella fase antecedente al Trattato di Maastricht.