Donald Trump, dopo che nel G20 di Osaka si era sperato che la tregua sulla “guerra commerciale” tra Ua e Cina potesse preludere al rasserenarsi degli animi, la scorsa settimana ha fatto l’ennesima mossa. Ha promesso che, dal primo settembre 2019, verranno applicati dazi su ulteriori 300 miliardi di dollari d’import cinese. Vale a dire: quasi tutte le esportazioni dal Paese del Dragone verso l’America sono ormai sottoposte a più alte tariffe.
La Casa Bianca sperava che la sua scelta avrebbe portato a più miti consigli i cinesi. Lunedì invece lo yuan è scivolato verso il dollaro oltre la soglia di sette. Trump, via Twitter, ha accusato la Cina di manipolare i cambi. La Banca centrale di Pechino ha respinto le accuse e spiegato che lo "yuan non viene usato come uno strumento a cui ricorrere nelle dispute commerciali".
In questo modo (deprezzando la propria valuta) la Cina ha mandato più di un segnale a Washington: "non ci facciamo spaventare dalle tariffe". In secondo luogo, svalutando la propria moneta, ha reso più difficili le esportazioni statunitensi verso la seconda economia al mondo. Se a questo si aggiunge lo stop agli acquisti di prodotti agricoli "made in Usa" da parte di Pechino ben si capisce il perché del nervosismo di Trump. La svalutazione dello yuan, però, rischia di fare male (oltre alle aziende americane) alle stesse imprese cinesi. Non va infatti dimenticato che molte di queste sono indebitate in dollari.